Lavoro, lavoro, lavoro… sempre lavoro! Riflettendoci, è una di quelle parole che si fanno sempre più presenti – e a volte più pressanti – nella nostra vita e nel nostro vocabolario quotidiano. Il lavoro è una di quelle attività che ci assorbe completamente: attraversiamo fasi intere della nostra formazione per guardare a ciò che potremo fare concretamente per la nostra società e a come potremo contribuire personalmente per migliorarla (no, Chicco, quella scultura di pastella che hai fatto a sei anni non conta, se non per la tua povera mamma che se la dovette sorbire).
Così si cresce, passano gli anni e si arriva all’università: c’è chi – ancora in fasce – può contare sulla propria profonda confidenza di quella che sarà la scelta universitaria; c’è chi invece si iscrive in facoltà con molti punti interrogativi (neanche fosse l’Enigmista del Cavaliere Oscuro); sta di fatto che questo momento si discosta decisamente dagli altri presenti nella nostra carriera da baldi studenti: arrivano anche le prime responsabilità economiche e temporali; mettiamoci anche il fatto che ognuno voglia coltivare giuste aspirazioni personali e dipingeremo un quadro denso di appesantimenti strutturali. Il lavoro in questo frangente è un traguardo per alcuni, una rivendicazione per altri («Voglio fare l’esperto di neurologia latina!», sempre rifacendoci al bimbo pensatore di prima); altre volte invece è funzionale per motivi esterni al procedimento del proprio percorso accademico.
Questo articolo si concentrerà proprio sui rari casi di ibridi quali studenti-lavoratori: ragazzi e adulti che per necessità intramezzano la propria esperienza studentesca scoprendosi camerieri, segretari, custodi; oppure, in controtendenza, riscoprendosi studenti durante la propria condizione di professionisti.
La prima storia ci porta da Linda, ragazza della facoltà di Scienze della Formazione nelle Organizzazioni che si dà davvero da fare. I lavori che svolge durante l’università sono ben tre: «La mia settimana lavorativa inizia alzandomi al mattino alle 5:10, vado a fare le pulizie in una palestra per circa un’ora e mezza, mi preparo, vado a scuola e alla sera svolgo dei corsi, sempre in palestra, che durano circa un’ora; mentre nel fine settimana capita che mi chiamino allo stadio per fare l’hostess, ma questo dipende dalle disponibilità. Sono tante cose necessarie a pagarmi gli studi, altrimenti non sarebbe possibile finanziarli. È difficile organizzarsi con tutte queste attività: alzandomi presto al mattino ci sono delle volte in cui mi torna il sonno e conciliare lo studio è un po’ difficile. Credo che se non avessi lavorato, non avrei compreso tante cose. Stando a contatto con le persone, specie con quelle adulte, sono riuscita a migliorare degli aspetti del mio carattere: prima ero più introversa; ora sono riuscita ad acquisire delle competenze che sto riconoscendo e riutilizzando nel mio corso di studi».
Passiamo poi a professionisti che, per esigenze personali o per aggiornamenti di vario genere, hanno deciso di cominciare una nuova avventura all’università. Come Cristina, insegnante di ruolo nel settore pubblico: «Dal mio punto di vista tutti i lavoratori dovrebbero avere questa necessità di aggiornamento continuo. È un’esigenza che ho sempre sentito e ora ho avuto l’opportunità di fare questo passo importante. Penso che la formazione sia uno stimolo per lavorare meglio, per porsi degli obiettivi: ho fatto questo passo perché, a parer mio, il lavoro e la formazione sono due mondi integrati. Dove lavoro io, i miei colleghi strabuzzano gli occhi, mi guardano incuriositi, pensano: «Ma chi te lo fa fare?», perché sanno che è faticoso. Dipende però soprattutto dalla propria organizzazione e da come uno riesce a gestirsi. Io sono anche mamma di una ragazza adolescente che è molto fiera di me: si preoccupa del fatto che passi molto tempo tra i libri. Una cosa che mi piace dell’università è il fatto che ci sia un continuo scambio di relazioni, di confronti. Noto purtroppo nelle aule il fatto che molti ragazzi studino senza essere particolarmente coinvolti emotivamente: per la mia esperienza credo sia ancora troppo presente un atteggiamento mirato al superare l’esame, senza godere appieno della bellezza dello studio».
Abbiamo così visto due differenti condizioni. Ognuna di loro ci ha mostrato una testimonianza vissuta in maniera differente, ma penso emergano dei tratti riconoscibili in ognuna di queste esperienze: il lavoro – riprendendo parte dell’ultimo intervento – deve essere integrato alla formazione, forse proprio perché è parte sostanziale dell’esperienza che altrimenti non risulterebbe nella sua interezza. Parlare con queste fantastiche persone mi ha mostrato come quelle che per molti possono sembrare situazioni difficili, per altri abbiano un sapore quotidiano. Mi ha insegnato che un’esperienza senza una svolta pratica come quella lavorativa non può ritenersi completa, e che anche il solo lavoro senza un supporto teorico perderebbe la propria valenza e diventerebbe arido, determinando quella che sarebbe un’azione meccanica.