Come da quattro edizioni a questa parte, anche quest’anno in città si è tenuto il TEDxVerona, evento all’insegna dell’innovazione e del progresso. TED infatti sta per Technology Engineering Design, ed è un’organizzazione no-profit che organizza conferenze in tutto il mondo con un unico obiettivo: condividere “idee che meritano di essere diffuse”.
Ora, per una come me che ha l’inbox di YouTube intasata da video di TED, l’opportunità di partecipare era troppo ghiotta per farsela scappare. In particolare, mi incuriosiva il tema scelto per l’edizione 2019, “Zero: la libertà di essere”. Interessante, ma che cosa dovrebbe significare?
Me lo sono fatta spiegare dall’organizzatore dell’evento e l’idea di fondo era questa: bisogna rivalutare quello che sappiamo, mettere da parte i vecchi modelli di riferimento e (passatemi il termine) sbatterci per imparare ad avere una mentalità malleabile. Specie nelle scelte che dobbiamo fare, anche quando ci troviamo di fronte ad un bivio dove l’opzione “risposta a scelta multipla” non è compresa.
Il fatto è che vedere le cose in bianco e nero non ripaga. Non a caso il tema del TED conteneva l’intero spettro dei colori, a simboleggiare che la nostra libertà di essere non si basa su una dicotomia, ma anzi è ricca di sfumature di possibilità.
Belle parole, ma sentite almeno mezzo migliaio di volte. Eppure è qui che sta la differenza: in un contesto del genere anche formule ormai abusate, come l’invito ad osare e mettersi in gioco per il proprio futuro, sembravano vestite di luce nuova. Sarà stato che tutti i partecipanti parevano credere davvero in un sistema che non incasellasse le persone in posizioni preconfezionate a mo’ di Tetris, saranno state le storie dei relatori che sono riuscite ad ispirare il lato sognatore del pubblico, ma il risultato è stato di sicuro effetto.
Questo anche grazie al fatto che gli ospiti del TED che si alternavano sul palco venivano da diversi ambienti, e il più delle volte esibivano un background molto diverso da ciò che li aveva portati lì a parlare ad una platea poco incline a frasi fatte. Soprattutto i più giovani, ci tengo a sottolinearlo, perché noi siamo i più disillusi di tutti.
Ogni giorno siamo inondati da cascate di notizie sul mismatch tra percorso di studio e lavoro effettivo, da dati sulla disoccupazione giovanile e da “vecchi saggi” che ci dicono di puntare sul sicuro, e che con una laurea umanistica al massimo potremo andare a friggere le patatine da Burger King. Le due parole che da sempre meglio definiscono l’ideale canonico di lavoro sono “posto fisso”, e con questi presupposti sfido chiunque a sentirsi scattante come Bolt nel gettarsi nell’incertezza per inseguire un’idea che di fisso non ha niente. Tanto più se non c’è un paracadute a salvarci dal vuoto.
Ma lo scopo dell’evento era anche questo: non trasmettere un invito a lanciarsi in qualcosa senza cognizione di causa, ma piuttosto a scovare le nostre abilità più nascoste ed imparare come sfruttarle nella realtà attuale. I propulsori sono la capacità di adattamento, l’improvvisazione e la creatività, ma soprattutto il coraggio di mettersi a disagio di propria volontà. Perché uscire dalla propria “comfort zone” significa proprio questo, lasciare le sicurezze di un ambiente in cui sappiamo muoverci per avventurarci in terre inesplorate, ma che possono arricchirci di soddisfazioni.
Per cui invece di ambire al sempre meno credibile “tempo indeterminato”, possiamo e dobbiamo scegliere di investire sulla nostra formazione personale e accettare di metterci sempre nei panni di chi ha ancora molto da imparare così che, invece di continuare a rincorrere l’opportunità giusta, sia questa a venirci incontro.